malattie rare

LA STORIA Se lo Stato non assiste

11.04.2011 03:04

Una signora romana affetta da Sla in stadio avanzato non chiede l'eutanasia ma l'assistenza per andare avanti. Ma le istituzioni sono assenti e i suoi ex colleghi si tassano per pagarle le cure. La battaglia della figlia per obbligare la Asl a provvedere
di CARLO CHIANURA

ROMA - C'è un caso Welby alla rovescia: una signora romana, ex dirigente di banca e gravissima per uno stato avanzato di Sla, al contrario di Giorgio Welby vorrebbe vivere e non morire. Senonché - nel paese in cui il premier ha scritto che si vergogna per non aver saputo evitare la morte di Eluana Englaro - le istituzioni non le garantiscono assistenza adeguata. E allora succede che gli ex colleghi si tassino per sostituirsi alle manchevolezze dello Stato che pure vorrebbe difendere la vita. Ma, questa volta è proprio il caso di dirlo, c'è un giudice a Berlino: la figlia della ammalata si è rivolta alla magistratura e la sentenza appena uscita dice che la donna avrà da ora in poi diritto all'assistenza 24 ore su 24.

Situazione disperata. La parte finale di questa storia comincia quando la figlia di Giovanna Mancia decide di andare a parlare con l'avvocato Alfonso Amoroso, legale della Federazione per il superamento dell'handicap (Fish) e vincitore in passato di altri processi simbolici in difesa dei diritti dei disabili. Chiara, la figlia, fa presente all'avvocato una situazione disperata: la madre è dal 1997 totalmente non autosufficiente a causa della sclerosi laterale amiotrofica e la situazione è costantemente peggiorata. Al contrario di Welby e di molti altri, non è riuscita negli anni neanche a ottenere dalla Asl uno di quei computer per comunicare. La famiglia si è arrangiata costruendo una lavagnetta con le lettere dell'alfabeto: quando Giovanna strizza

due volte gli occhi su una lettera, vuol dire che è quella giusta e così chi le sta accanto ricostruisce a fatica le parole.

L'aiuto dai colleghi. Chiara è l'unico punto di riferimento della madre che da Comune e Asl riceve dodici ore di assistenza giornaliera: tante in assoluto, del tutto insufficienti in relazione alla malattia di Giovanna. Ci sarebbe un'alternativa: andare in un istituto, lasciare la propria casa. D'altro canto, non è così che lo Stato affronta e risolve con esborsi decuplicati stati di malattia 1 che potrebbero essere affrontati a casa propria? Né bastano i soldi che Giovanna è costretta a spendere per l'assistenza notturna, almeno 150 euro per notte. Tanto che gli ex colleghi della banca - e qui si apre un bellissimo caso di solidarietà - decidono di tassarsi per contribuire alle spese mediche e infermieristiche. "Per Comune e Asl", ragiona amara Chiara, "questi ammalati sembrano vuoti a perdere. Esseri senza diritti".

Un diritto riconosciuto.
L'avvocato Amoroso valuta che bisogna rivolgersi alla magistratura. Viene investita del caso la giudice Irene Ambrosi, della sezione lavoro del Tribunale di Roma. E Ambrosi dà ragione a Giovanna e, assieme alla ragione, anche la certezza che sarà da ora in poi assistita in casa come è suo diritto. Fondamento della sentenza è l'applicazione di un diritto riconosciuto dall'articolo 19 della Convenzione Onu sui diritti dei disabili, che l'Italia ha ratificato nel 2009. Vi si legge che "le persone con disabilità devono avere la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa".

Una sistemazione "inviolabile". Già, poiché è essa stessa strumento necessario per la tutela del diritto alla salute e per la tutela della personalità all'interno delle formazioni sociali, con specifico compito per lo Stato di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che possono impedire il pieno sviluppo della persona umana, come stabiliscono gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione. Questi stessi diritti, ricorda la giudice Ambrosi, sono garantiti inoltre dal Trattato di Lisbona e da numerose sentenze della Cassazione. Regioni, Comuni e azienda sanitarie non possono invocare l'insufficienza delle rispettive disponibilità finanziarie poiché questo significherebbe "arrecare pregiudizio a un bene primario e fondamentale qual è quello della salute della disabile", in quanto tale definito "diritto soggettivo perfetto" dalla Cassazione a sezioni unite.

Quell'avverbio: "Finalmente". Una sentenza che rappacifica con le istituzioni e con l'idea che molti articoli della Costituzione non siano stati scritti invano. Giovanna è una donna tenace: vuole vivere. Sulla lavagnetta ha composto un avverbio: "Finalmente". E Chiara ha riconosciuto sul viso della madre l'impronta inconfondibile di un sorriso.
 

fonte la repubblica

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